L’ARGENTINA E' UN PAESE CON IL NOME DI DONNA
di Cristiana Pezzotti

Nel periodo della dittatura militare argentina tra il 1976 e il 1983, si calcola che scomparvero circa 30.000 persone, durante quella che venne chiamata Guerra Sucia. Il termine usato per definire queste vittime è desaparecidos che significa propriamente ‘scomparsi’ e il numero indicato ha valore simbolico della lotta per i diritti umani in Argentina.
Proviamo a immaginare.
Immaginiamo per un momento migliaia di massacri e condanne a morte eseguite per le strade dalla Triple A, lo squadrone che agiva impunemente e con il benestare del Governo. Lo chiamarono ‘Processo di riorganizzazione nazionale’ e più che mai, la morte divenne libera, mettendo alle strette la vita. Ma quando la stessa morte risultò troppo ‘scomoda’ ed eclatante, allora la dittatura inventò una sorta di atto magico: la magia più perversa che si possa immaginare.
Niente più attentati, niente discariche in cui gettare i corpi, niente sparatorie nelle carceri, niente omicidi alla luce del giorno. I perseguitati, le vittime, sarebbero scomparsi. Semplicemente non sarebbero più stati lì: rapiti e fatti sparire da un giorno all’altro, come a far credere che, poiché non c’erano corpi, né prove, nessuno avrebbe potuto accusare i militari di alcun crimine.
Rodolfo Walsh – giornalista e scrittore, considerato il fondatore del giornalismo investigativo argentino per il libro Operación Masacre, scrisse la sua Lettera aperta alla giunta militare e spiegò con chiarezza ciò che nessuno osava dire. Parlò di un lago a Cordoba trasformato in cimitero lacustre; di persone gettate da aerei militari nel
Río de la Plata, i cui corpi emersero sulla costa uruguaiana. Denunciò un sistema di tortura assoluto e senza tempo e parlò dei presidi e dei commissariati utilizzati come campi di concentramento.
Walsh datò quella lettera il 24 marzo 1977, ne distribuì diverse copie e il giorno dopo fu rapito dai militari. Di lui non si seppe più nulla.
Desaparecidos è un vocabolo entrato definitivamente a far parte della nostra lingua italiana, così come di molte altre. “Desaparecidos. Palabra - ¡Triste privilegio argentino! - que hoy se escribe en castellano en toda la prensa
del mundo…” Il concetto di desaparecidos, sebbene abbia cominciato a delinearsi alla fine degli anni Settanta,
come tutti i fondamenti della memoria collettiva, acquista significato solo nel tempo prolungato di lunga o media durata. In questo modo non è cementato una volta per tutte ma si ricarica di elementi di tempi recenti, di altri ‘presenti’, di nuove interpretazioni, di attori che – pur simili – non sono più gli stessi. Lo spazio tra l’evento accaduto e la sua contemporanea evocazione non risulta così vuoto perché molteplici sono state e sono ancora oggi le forme utilizzate per riempirlo. Una sorta di ‘strappo’ ricucito a fatica da una memoria collettiva che non vuole dimenticare.
E questa Memoria si alimentò di una storia nuova. La storia di madri e padri che si recarono con coraggio alle carceri in cerca dei loro figli. Lasciarono le case per affrontare l’apparato repressivo più imponente nelle cronache di un Paese. Avevano la disperazione e l’amore impressi sulla pelle e da lì nacque il loro coraggio. Girarono per
ospedali, camminarono nei tribunali, osarono recarsi nelle stazioni di polizia e nelle caserme. Frugarono negli obitori. Nessuno sapeva nulla, per loro non c’erano risposte: era la legge del silenzio.
Con il tempo, i padri furono costretti a fare ritorno al lavoro. La maggior parte delle madri erano invece casalinghe e sentirono addosso la sensazione che non restasse altro da fare se non dedicare ogni ora, ogni minuto e ogni secondo della loro vita alla ricerca dei propri cari scomparsi. Si riconobbero fra loro e scoprirono che altre donne condividevano quella sorta di segnale che ognuna aveva impresso negli occhi come un codice segreto: disperazione e incertezza.
Una di quelle donne un giorno disse: Basta.
Portava il nome di un fiore e fu sequestrata nel dicembre del 1977. Aveva 53 anni e nemmeno di lei si seppe più nulla. Come luogo della sua morte, le cronache registrano l’oceano Atlantico. Si chiamava Azucena Villaflor e proclamò i desaparecidos figli di ognuna di quelle donne, riconoscendo un valore ‘sociale’ alla maternità.
Azucena decise che Plaza de Mayo sarebbe stata il territorio suo e delle altre madri. Per identificarsi, esse cominciarono a indossare sul capo un fazzoletto bianco, ritagliato nella stoffa dei pannolini dei bambini, nel ricordo dei figli scomparsi. Questo fazzoletto è divenuto il simbolo del movimento.
La prima volta che si riunirono fu sabato 30 aprile 1977. Erano solo 14 donne, troppo poche per una causa così importante, e decisero di ritornare il venerdì successivo. Siccome però, lo sappiamo, le madri sono sagge, una di loro avvertì: “El viernes es dia de brujas” e così fu scelto il giovedì.
Durante la prima riunione ufficiale nella Piazza, un gruppo di militari si avvicinò alle donne con fare minaccioso invitandole allo sgombero: “Caminen, circulen, no se pueden quedar acá.” Le donne, anziché lasciarsi intimare e andarsene, cominciarono a camminare in circolo, in senso antiorario, silenziose e coraggiose sotto lo sguardo stupito dei militari. Lo fanno ogni giovedì, da sempre.
Il 22 agosto 1979 fu creata la Asociación Madres de Plaza de Mayo e oggi il Movimento compie quarantasette anni di lotta dal giorno del primo raduno. ‘Las Madres desafìan las leyes de la física: son las únicas que caminan en circulo y siguen avanzando.’
L’Argentina è un Paese con un nome di donna e le donne ebbero il merito di trasformare il proprio dolore in azione e pensiero, la paralisi e la paura in una lotta che si è moltiplicata all’infinito. Superato il periodo del conflitto, si rese necessario trasmettere i fatti alle generazioni future e ravvivare la memoria collettiva attraverso cerimonie e rituali pubblici che mirano a legittimare un presente radicato nella propria storia, e allo stesso tempo a socializzare i nuovi cittadini nelle tradizioni comunitarie attraverso l'evocazione di un passato comune.
La memoria collettiva del popolo argentino si rivela come una delle poche fonti veramente efficaci che si pongono come punto di ripartenza. Essa è prodotta attraverso oggetti, rappresentazioni o immagini che emergono costantemente. La possiamo rintracciare in una canzone rock nazionale con la stessa chiarezza che in un libro di storia, in un film come in un evento pubblico.
Delle Madri di Plaza de Mayo si è discusso, scritto, drammatizzato e si è cantato. Molteplici sono gli esempi di forme d’arte che hanno voluto dare luce al fenomeno allo scopo di tenerne viva la memoria. Un merito particolare va riconosciuto al cantautorato di protesta, una forma d’arte diffusa in tutta l’America Latina e che nasce dall’esigenza del popolo di affidare al canto le proprie sofferenze e preoccupazioni.
In questo modo sorsero in Argentina liriche spontanee che poi vennero musicate e suonate nelle radio di tutto il Paese divenendo un patrimonio che ancora oggi si tramanda nella musica con l’utilizzo di ritmi diversi, lingue e metafore, per mostrare al mondo il coraggio delle Madri e gli orrori della dittatura.

Tantas veces me mataron, tantas veces me morí
Sin embargo, estoy aquí, resucitando
Porque me mató tan mal
Y seguí cantando
Tantas veces me borraron, tantas desaparecí
A mi propio entierro fui sola y llorando
Hice un nudo en el pañuelo, pero me olvidé
después
Que no era la única vez
Y seguí cantando
(Mercedes Sosa - La cigarra)
***
Molte volte mi hanno assassinata, molte volte sono
morta
Tuttavia, sono ancora qui, resuscitando
Ringrazio la disgrazia e la mano che tiene il pugnale
Perché tanto dolore mi ha uccisa
Eppure io non smetto il mio canto
Mi hanno cancellata tante volte, altrettante sono
sparita
Ero sola al mio funerale e piangevo
Feci un nodo al fazzoletto, eppure in seguito mi dimenticai
Che quella non era stata l’unica volta
E continuai a cantare
(Mercedes Sosa - La cicala)

Le parole di questo componimento sono di María Elena Walsh che scrisse il tema nel 1972. La canzone fu pubblicata per la prima volta nel 1973 e divenne un inno di libertà e democrazia.
Mercedes Sosa, la cantora del pueblo, lo fece suo portandolo fuori dai confini Argentini. Il riferimento alla cicala che canta al sole dopo un anno di letargo passato sottoterra è metafora di sopravvivenza e rinnovamento. La cicala, nota per il suo canto dopo lunghi periodi di inattività, simboleggia la capacità di superare periodi bui e ritornare alla vita con più forza e vitalità. A essa si ispirarono le Madri di Plaza de Mayo facendo del tema musicale un manifesto del proprio Movimento, un simbolo di speranza per i tempi futuri.
Durante i loro quarant’anni e oltre di lotta, le Madri di Plaza de Mayo hanno messo in atto infinite strategie per comunicare la loro rivendicazione e la lotta e per diffondere il proprio operato: newsletter, giornali, riviste; singolari manifestazioni; riprese di spazi pubblici; una propria radio, un programma televisivo, un’area stampa e audiovisivi. Ognuno di questi elementi è solo una parte delle innumerevoli azioni intraprese e che hanno generato un profondo impatto pubblico con il suo significato più elementare: stabilire relazioni.
Giovedi 13 novembre 2014 nacque ‘La hormiguita colorada’ per la volontà di Hebe de Bonafini, presidente del Movimento dal 1979 fino al 2022, anno della sua morte. Si tratta di un gruppo multimediale composto da Radio Madres, un’area Stampa e Audiovisivi, la rivista «Ni un paso atrás», e la stessa Plaza de Mayo con l’obiettivo di ‘sfruttare’ quest’ultima in tutto il suo spazio e grandezza e raccontare la notizia che non viene diffusa dai media di stato. Lo scopo di ‘La hormiguita colorada’, annunciò Hebe in un discorso pubblico, è quello di “parlare di tutte le meraviglie ottenute”.
Il grido di battaglia adottato da Hebe fu ‘Aparición con vida’. Lo slogan fu portato a Stoccolma, in un comunicato delle Madri distribuito alla stampa in occasione dell'assegnazione del Premio Nobel per la Pace ad Adolfo Pérez Esquivel, taciuto in patria dalla stampa e dai media. Il motto costituì una sfida politica ai dettami e alla legittimità del sistema istituzionale che si sarebbe costruito in Argentina fin dai primi giorni della dittatura.
La richiesta delle Madri era molto semplice: “O i dispersi tornano in vita, oppure il sistema fornisca le necessarie risposte politiche, giuridiche, sociali ed economiche alla portata del genocidio che fu messo in atto”. (cit. 5 de
diciembre de 1980 nació la consigna «Aparición con vida» da madres.org)
Si attese l’insediamento di Néstor Kirchner nel 2003 per ottenere una reazione governativa per quanto flebile e appena accennata.
Le Madri di Plaza de Mayo furono picchiate in molte occasioni durante i cortei e alcune di esse detenute nelle prigioni. Nonostante ciò, queste donne perseguono gli obiettivi prefissati praticando una resistenza pacifica
in nome dei propri ideali che sono urlati senza paura a fianco del popolo che ancora oggi scende nelle piazze a supporto della loro battaglia

1. La guerra sporca (in spagnolo: Guerra Sucia) fu un programma di repressione violenta attuato in Argentina con lo scopo di distruggere la cosiddetta sovversione, rappresentata dai gruppi guerriglieri marxisti o peronisti attivi in Argentina dal 1970, ed eliminare in generale qualunque forma di protesta
e di dissidenza nel paese presente nell’ambiente culturale, politico, sociale, sindacale e universitario.
(cit. Wikipedia).
2. Desaparecidos - Parola - Triste privilegio argentino! Che si scrive in lingua spagnola sulle pagine della stampa di tutto il mondo. CONADEP. Nunca más. Buenos Aires, EUDEBA, 1984, p. 9
3. Il venerdì è il giorno delle streghe.
4. Camminate, circolate, qui è vietato fermarsi.
5. Le Madri sfidano le leggi della fisica. Sono le uniche che, pur camminando in circolo, non smettono di avanzare.

 

Leggi l'articolo su Librick la rivista degli scrittori n.9 ottobre 2024

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